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THE COMMEDIA MUST GO ON

La Commedia continua. Quella dell’Arte. Quella Umana. L’evoluzione dei modi di porci di fronte all’arte come di fronte a noi stessi, produce formule nuove ed aumenta, moltiplica, accelera i contatti di tutti con tutti. Ma la necessità di capire e approfondire resta, anzi, cresce insieme a tutto il resto.

In tutti i campi. Anche in questo mondo della finzione vivente, il Teatro, apparentemente destinato all’estinzione,cancellato dalla tecnologia e dal frastuono globale. Apparentemente: un guasto tecnico e quel mondo virtuale e rumoroso si spegne, lasciando, ai suoi assidui, un angoscioso silenzio

ed un improvviso senso di abbandono. Ma il Teatro non si spegne. I materiali di cui è fatto siamo noi. Ci sarà sempre. E ci sarà sempre la Cultura Umana di cui è fatto e della quale esso si nutre. Benvenuti.

PROLOGO «VIRTUALE» DELL’AUTORE
Smorfia: Prologo, 61
Dicette Pullecenella:
‘A ccà me trase e pe’ culo m’esce

al Libro Cartaceo
VITA MORTE E RESURREZIONE DI
PULCINELLA
La Maschera che ha tenuto in vita
la Commedia dell’Arte
di Antonio Fava

Questo lavoro, VITA MORTE E RESURREZIONE DI PULCINELLA, non è storico-filologico, è un lavoro di estetica, poetica e di analisi strutturale del più longevo, concreto e strutturato genere, o sistema di generi teatrali, che oggi chiamiamo o, se si preferisce, il cui nome è oggi standardizzato nella locuzione Commedia dell’Arte; il pretesto forte, estetico-poetico-strutturale, è la maschera di Pulcinella.
Nel cartaceo del mio PULCINELLA, Il paziente lettore noterà qualche insistenza su alcuni concetti. Ciò è dovuto a due ragioni: la prima derivante dall’esperienza dell’insegnamento dalla quale ho appreso che la ripetizione di concetti e principî fondamentali non è mai troppa; la seconda è conseguenza dell’elaborazione del libro avvenuta avventurosamente in tempi e luoghi differenti, compresi non-luoghi come gli aeroporti e gli aerei nei tempi d’attesa e di viaggio. Anche i treni e le stazioni hanno fatto la loro parte. E poi gli alberghi e, ovunque, camminando (quando da solo). Insomma, tempi e luoghi preziosissimi e insostituibili per scrivere un libro, poiché il 90% del mio tempo attivo, è sociale. Così che la rilettura degli appunti mi ha messo di fronte a una certa produzione di ripetizioni. Le ho risolte in gran parte, ma non ho voluto risolverle tutte.
Repetita Juve, dice il mio carissimo amico e collega Dottor Arcifanfo Spidocchioni della Nobilissima anzi Asinissima Compagnia dei Briganti della Bastina. Io preferisco la lezione classica, Repetita Iuvant, ma non ditelo al Dottor Arcifanfo, sennò m’intavola una disceptatio infinita.

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Chi fa teatro, di qualsiasi genere e diffusione, non fa mai nulla – o non tutto – di ciò che storici e critici del teatro affermano i teatranti facciano.
E per essere più precisi, dirò che gli storici e i critici del teatro, per quanto si sforzino non sono mai capaci di spiegare che cosa facciano e come gli attori facciano le cose, sulla scena: in che modo gli attori e per quali reali ed esatti motivi, fanne chelle che fanne. Le loro spiegazioni sono sempre sconcertantemente astratte, astruse, inapplicabili; sono pessimi osservatori, guardano e devono pur vedere qualcosa, ma vedono altro da quello che noi effettivamente facciamo, attuiamo; e se noi – dopo aver letto una critica che ci riguardi – dovessimo rifare, sulla scena, ciò che abbiamo fatto ma così com’è stato descritto da uno di questi osservatori, non potremmo più rifarlo, non ne saremmo capaci.
Un attore, quando legge la critica che lo riguarda o che riguarda lo spettacolo del quale fa parte, può essere contento o deluso o arrabbiato a seconda di quello che il critico dice di positivo o negativo. Un artista della scena gioisce sempre quando la critica commenta positivamente la sua prestazione e si arrabbia o si deprime se se ne parla negativamente: ma l’artista non si chiede mai se quella descrizione o commento abbia a che fare realmente con quanto prestato sulla scena; non per distrazione, ma per pura umana debolezza: vuole solo sapere se è piaciuto, verificare se ha avuto successo.

L’artista resta basito quando la critica è incomprensibile, criptica, indecifrabile, scritta in un linguaggio ultraspecialistico: specialistico della critica, non dell’attore, dato che un attore, con altri attori, non parla mai con quel linguaggio ma ne usa uno schietto, semplice, diretto, chiaro e inequivocabile; dunque, quella critica non permette di capire se la sua prestazione sia stata buona oppure no, se è piaciuta oppure no, se ha avuto successo o se ha fatto fiasco.
L’artista infine non sa più che pensare quando, sapendo benissimo di avere avuto successo, poiché il pubblico glie l’ha dimostrato molto chiaramente durante tutta la rappresentazione e specialmente nel grande applauso finale, leggendo poi la critica “scopre” di aver fatto solo cose sbagliate.
L’arte teatrale è da sempre spiegata, narrata, illustrata da chi il teatro non lo pratica. Tre sono le categorie storiche degli osservatori del teatro:
chi ne redige la storia (storiografia teatrale)
chi ne sviluppa l’analisi (critica teatrale)
chi ne vorrebbe la scomparsa (avversità al teatro)
Sono esclusi i teatranti e il pubblico che frequenta il teatro.
Non di rado, le tre categorie sono fuse in un’unica persona.

La quasi totalità della documentazione scritta, critica e testimoniale, sulla Commedia dell’Arte, è detrattiva. Ed è sincera in questo senso. Noi oggi ricaviamo molte informazioni riguardanti la Commedia dalle dichiarazioni di esecrazione, di schifo, che provocava in quelle persone. Ci riusciamo meglio che con i complimenti, perché il ributto oltre ad essere molto più frequente dell’elogio è più circostanziato, a modo suo sincero e va dritto allo scopo. Ecco quanto ci dice Tommaso Garzoni alle pagine 739 e 740 della sua PIAZZA UNIVERSALE:
«Come entrano questi dentro a una città, subito col tamburo si fa sapere, che i Signori Comici tali sono arrivati, andando la Signora vestita da huomo con la spada in mano a fare la rassegna, et s’invita il popolo à una commedia, ò tragedia, ò pastorale in palazzo, ò all’Hostaria del Pellegrino, ove la plebe desiosa di cose nuove, et curiosa per sua natura subito s’affretta a occupar la stanza, et si piazza per mezzo di gazette dentro alla sala preparata, e qui si trova un palco postizzo, una scena dipinta col carbone senza un giudicio al mondo; s’ode un concerto antecedente d’asini, et galavroni; si sente un prologo da Ceretano: un tono goffo come quel di Fra Stoppino; atti increscevoli come il mal anno; intermedij da mille forche; un Magnifico che non vale un bezzo, un zani che pare un’occa, un Gratiano che caca le parole, una ruffiana insulsa, e scioccarella, uno innamorato che stroppia le braccia a tutti quando favella, uno Spagnuolo, che non sa proferir, se non mi vida, e mi corazon, un pedante che scarta nelle parole toscane a ogni tratto, un Burattino che non sa far altro gesto che quello del berettino che si mette in capo, una Signora sopratutto orca nel dire, morta nel favellare, addormentata nel gestire, c’ha perpetua inimicizia con le gratie, e tien con la bellezza differenza capitale.1» [sic, tutto].
Il linguaggio è colorito, simile a quel linguaggio teatrale tanto deprecato; e ce n’è abbastanza da ricostruire tutto un mondo, un tipo di vita, un mestiere. Molto probabilmente il buon Garzoni testimonia della cattiva rappresentazione di una (o più di una) compagnia di basso livello. L’esempio di quello zanni, “un Burattino che non sa far altro gesto che quello del berettino che si mette in capo” è puntuale. Poi costatiamo da varie immagini storiche di epoche diverse e con compagnie e artisti diversi e da molti scenari, che effettivamente si usava

fare giochi vari col berretto. Ebbene possiamo prendere per buona la testimonianza del Garzoni che ci conferma un uso, quello dello Zanni che giocherella col berretto. Il “critico-storico” Tommaso Garzoni vedeva che forse sì quell’attore non era gran che, ma gli sfuggiva il motivo istrionico del gesto, in sé stesso giusto perché appartenente al personaggio, all’uso, allo stile acquisito da tutta una categoria. Grazie dunque a un osservatore non benevolo, ricaviamo un’informazione o, meglio, una conferma di ciò che ci sembrava esistere e ora procediamo più tranquilli nello studio dell’interpretazione del personaggio.
Curiosamente, la cattiveria d’altri tempi ci è di grande utilità mentre le attenzioni di oggi scansionano l’Arte in un modo che io, attore, non so proprio come utilizzare.
Con tutto il rispetto per le minuziose e approfondite ricerche degli studiosi della nostra epoca, ciò che gli attori fanno, facevano, faranno sulla scena, può essere spiegato pensando come attori.
Per pensare come un attore occorre essere un attore, oppure occorre frequentare gli attori nell’esercizio delle loro funzioni, che sono quelle di allestire spettacoli teatrali per rappresentarli davanti al pubblico; lo scopo finale si riassume nel divertimento del pubblico e nel successo degli attori. Incredibile, eh! che si possa dire così! D’altronde, se io attore del Duemila devo recitare, che so, Shakespeare (tanto per citarne uno), o Goldoni (per citarne un altro) come faccio a sapere come va recitato? Me lo faccio spiegare nei modi incomprensibili, forse inconsistenti, oggi così in voga? Che cosa capisco io di come si recitava trecent’anni fa? E devo pur saperlo, anche se devo lavorare a una versione moderna di tali autori, poiché non modernizzo nulla se non so tutto quello che c’è da sapere sull’originale. E che capiranno fra trecent’anni di come si recita adesso? Me lo spiega il regista? Ahi … ! Sì, poiché il tremendissimo problema della nostra epoca teatrale è che gli attori sono nelle mani di registi che si formano con quel tipo d’indagine, di analisi e di linguaggio e poi manipolano gli attori a loro piacimento, attori smarriti, colpevolizzati, incapaci di servirsi del proprio talento perché questo viene letteralmente censurato e bloccato da quei registi. Sono registi a-teatrali così come lo sono spesso i pur bravi e scrupolosi ricercatori.

La critica alla critica qualcuno la deve pur fare. Non è lo scopo del libro, anche se per un teatrante e difficile astenersene. Se io ci provo, non è per cautelarmi o difendermi in modo personale (sto bene, sto benissimo, lo sto di salute [toccatina …] e lo sto professionalmente parlando), ma per contribuire a proteggere (anche in questo, insomma, ci provo) la Categoria, quella parte di essa almeno che tiene in massimo conto la Tradizione.
Quando la moderna storiografia dell’Arte s’è messa in testa che la Commedia è soltanto un personaggio, Arlecchino2, il quale è (dicono che sia) un diavolo e quindi la Commedia è una diavoleria infernale, non hanno soltanto sparato una grandissima pappolata, ma hanno anche e soprattutto – dall’alto della loro accademica autorità o autorevolezza accademica – operato una mostruosa e appiccicosa disinformazione dalla quale non riusciamo più a ripulirci, a decontaminarci.
Se la Commedia fosse davvero come dovrebbe essere in conformità a quelle “analisi”, non si saprebbe cosa farsene delle vicende dei personaggi, così normali, così cittadine, così laiche, così concrete: poiché così è nel repertorio comico che impegna i commedianti per oltre il settanta per cento dei titoli, e così è, trasversalmente, anche nei repertori ‘fantastici’ e ‘meravigliosi’ delle fabule pastorali e magiche e nelle opere regie e truci e tragiche e truculente. Nella piccola – in proporzione – quantità di maghi, magie, esecuzioni capitali e apparizioni di esseri superni e inferni d’ogni specie, ci sono sempre, immancabilmente, sempre centrali, sempre irrinunciabili riferimenti, i buffi normali laici concreti, i Vecchi con le loro tardive ‘sputazzelle’ e i Servi con la loro irrisolvibile sopravvivenza e gli Innamorati con le loro pene d’amore ed i Capitani con la loro boria, a ricordarci che la verità vera concreta umana e sociale la portano loro. La impongono. La affermano. Sempre.
Che fine hanno fatto, in quel momento, nel momento in cui alcuni hanno divulgato la bufala storica della Commedia-Diavoleria, la scientificità, l’esattezza, l’irreprensibilità che li

caratterizza, o meglio, che pretendono li caratterizzi? Hanno inseguito un’idea ideale solo perché gli piaceva. Il bisogno di “profondità” da attribuire a un genere che li imbarazza perché infond’infondo lo vedono frivolo e superficiale, li ha costretti ad inventarsi un mondo ctonio dal quale la maschera, quindi il personaggio unico, quindi il genere sviluppato, deriverebbero. La ricerca spasmodica di profondità della cosa, li ha indotti a scavare fuori della cosa e non nella cosa, perché intimamente convinti che in quella cosa, infond’infondo, non ci fosse, non ci sia nulla.
C’è alcunché di scientifico in questo? Sono scientifici quando spendono in carta e inchiostro e in megabyte per spiegare l’etimologia di quello sciagurato nome, unico fra le centinaia, forse migliaia, di tutti gli zanni di tutta la Commedia, a prestarsi a simili esercizi? E tutti gli altri – numerosissimi – nomi degli altri personaggi? Quanti e quali sono i nomi per i due Vecchi? Quanti e quali per gli Innamorati? E per i Capitani? Alla fine sono migliaia. Ogni nome è una storia e un significato e quindi un comportamento. Non contano nulla? Solo uno è interessante? L’unico che è riferibile (forzosamente) a un diavoletto, è quello che spiega tutto il sistema? Ma davvero?
Un nome. Un solo nome e tutta la Commedia dell’Arte è cancellata a vantaggio di un solo personaggio e ad evocazione di un mondo fantastico che nulla, ma proprio nulla ha a che vedere con la Commedia dell’Arte e, soprattutto, non ha nullissimamente a che vedere con la Sua nascita, la Sua origine, con il momento in cui Essa, apparendo, Laica e Rinascimentale, Cittadina e Concreta, dichiara tutto di Sé anche per il Suo futuro: incluso quel futuro barocco e degenerante, che vi butta di tutto dentro, come in una discarica capace e generosamente accogliente (compresi alcuni diavolastri moralisti importati dall’estero, in compagnia di tutti gli dèi dell’olimpo e di creature varie) e che non riesce a sporcarla, perché i tipi fissi, loro, resistono: laici, cittadini, concreti e rinascimentali, fino in fondo.

La lunga storia della Commedia dell’Arte, a volte sconcerta per la sua ‘gnoccaggine’3o faciloneria o per la sua bassa pretestuosità; ma tranquilli: nessuno pensi che qui si pensa che voi pensiate che noi pensiamo che secoli di attività di migliaia di compagnie e di attori, abbiano sempre toccato il vertice della perfezione, e che non si siano mai sbagliati o giammai lasciati andare al facile. In questo senso c’è davvero di tutto in Commedia. La Commedia continua anche, se non soprattutto, nei suoi aspetti più corrivi. Così che viene garantita anche la continuità storica e storiografica della sua detrazione. Che col passar del tempo si fa elegante e scientifica.
Un punto sul quale tutta la storiografia e la critica teatrale concordano, anche se con svariatissime sfumature ed intensità, è la (pretesa, ovviamente) assenza di struttura nelle opere, negli scenari e nelle commedie distese, della Commedia dell’Arte. Certo ce ne vuole di scientifica certezza per affermare un concetto così anti-scientifico. Intanto chiariamoci: tutte le cose fatte, fabbricate, anche un disegno al pennarello e una creta modellata opere di bambini, hanno precise strutture. Se poi ha una sua struttura un’opera unica (un David di Michelangelo per citarne una), figuriamoci un’opera ripetuta, condivisa, limata, perfezionata in migliaia di esperienze e per svariati secoli.
Credo che il rifiuto di vedere una struttura in un sistema espressivo che ha creato un mestiere e che l’ha insegnato a tutti, che ha coerentemente retto per secoli e regge tuttora, sia un lascito di quell’imbarazzo che ha costretto quegli storici del brutto secolo passato, tuttora influenti, a inventarsi la genealogia diabolica delle maschere della Commedia. Pensavano, e i loro discendenti (siamo alla terza generazione) continuano a pensare, che l’Improvvisa sia una cosetta, una cosuccia, una cosina, una coserella (vi risparmio gli oltre duecento diminutivi della lingua italiana elencati dal Tommaseo).
Però, non è il disprezzo profondo e malcelato che li porta a rifiutare l’esistenza di una struttura nella Commedia. No. È qualcosa di molto più imbarazzante. È la loro incapacità di vedercela, la struttura. E perché non la vedono? Perché la si vede solo se la si fa. La fanno loro? La saprebbero fare? No e no.
Non tutti i teatranti sono capaci di spiegarla: ma tutti sono capaci di capirla e di metterla in

pratica.
In questo mio lavoro, servendomi della grande maschera di Pulcinella, parlo di poetica della Commedia, di estetica della Commedia, di Tecnica e di Come-Si-Recita, ciò che è poi, fisicamente, Struttura della Commedia stessa. La struttura altro non è che com’è fatta e come la si applica: sta sulla superficie terrestre, non è né celeste né ctonia. Non è nemmeno nelle oscure profondità della psiche, ma è nei rapporti diretti fra persone, fra esseri umano-sociali, in due modi: rapporti fra umano-sociali sono le vicende rappresentate sulla scena e rapporto fra umano-sociali è la rappresentazione della fabula data dagli attori al pubblico.
La mia intenzione di contribuire a mettere chiarezza e ordine in questa confusione tutta derivata da chi ha erroneamente creduto di mettere ordine, è cominciata col precedente lavoro LA MASCHERA COMICA NELLA COMMEDIA DELL’ARTE. Lì la struttura della Commedia dell’Arte viene spiegata. Per la prima volta. Se ne beneficiano molti commedianti.
In VITA MORTE E RESSURREZIONE DI PULCINELLA mi servo, dunque, del grande personaggio per parlare della Commedia. Perché così, in questo modo? Pulcinella è l’unica maschera che non ha conosciuto interruzioni storiche. Pulcinella è la garanzia storica della continuità dell’Improvvisa. Pulcinella ha portato avanti, in epoca romantica, quando tutta la Commedia era scomparsa dal Continente, il genere e la sua evoluzione: è Pulcinella la porzione di Commedia che l’ha rigenerata e ricostruita per intero. Pulcinella, Grande Sopravvissuto, ha fatto sopravvivere un intero mondo. E Pulcinella è umano. Umanissimo. Circolano idee fasulle, oggi, su Pulcinella: sarebbe (udite udite!) un maligno, un malefico. Evidentemente, l’influenza delle teorie “diaboliche” è arrivata fin qui, fino a contaminare un personaggio che è la massima espressione dell’essere umano-sociale esposto a tutti, ma proprio tutti i possibili drammi, impicci, imbrogli quotidiani e tutti come vittima: poiché Pulcinella è un ‘pollo’, un coglione, un fesso; e lo è perché è profondamente buono. L’esatto e perfetto contrario delle serpeggianti teorie sul Pulcinella malvagio (ma chi le inventa queste supreme bestialità? Ha un nome? Chi divulga queste assolute schifezze senza alcun fondamento storico- artistico? Chi sa parli!).

Il mio sforzo contributivo continuerà, dopo questa pulcinellata, fra poco, con ancora più materiale di riflessione, spiegazione, dimostrazione. Non ho ancora un titolo per la prossima pubblicazione, che è in corso d’opera, e che sviluppa, amplia, aggiorna e arricchisce la prima.
Una cosa è certa, certissima, per me e per chi pensa come me: l’attuale esplosione (che sembra però un’implosione, rinchiusa com’è nei socials della gran rete, sguinzagliata per le strade di tanto in tanto, ma decisamente assente dai teatri) di una certa sedicente Commedia effettivamente superficiale e amorfa o mistimorfa, un rapido diffondersi di questa commediola dell’artuccia, sembra – il paradosso è solo apparente – voler dare ragione alla storiografia ed alla critica ultrascientifiche, le quali per voler dimostrare chissacché non han dimostrato nulla, legittimando questo risultato: la pletora di artistucoli commediolanti, fa quel che vuole, chello che lle passa p’a capa, perché “tanto è Commedia qualunque cosa si voglia che lo sia”. Alla faccia degli inventori dell’Arte, cioè, letteralmente, alla faccia del Professionismo.

Gli attori non sono quasi mai capaci di spiegare quello che fanno. Così si pensa. Verissimo, purtroppo. Ma a fronte di quel ‘quasi’, che sta a significare che qualcuno ci riesce4, c’è la realtà tremenda degli storico-critici i quali non sono MAI capaci di fare5 ciò che si sforzano di spiegare. Quindi, senza voler precludere a nessuno la libertà d’espressione e di divulgazione del proprio pensiero (lo si faccia, è tutto grasso che cola), siano meno casta, ascoltino, diano retta, riconoscano anche il nostro lavoro “teorico”. Che si sviluppa nel tempo, si formula ‘a posteriori’, nasce dalla pratica, quella benfatta come quella malfatta, da quella così come da quella cosà; da quella pratica che è, appunto, l’oggetto di qualsiasi studio sul teatro. È esperienza. È testimonianza. Roba preziosa in questi tempi di corsa rapida verso l’estinzione di tutte le arti e le culture storiche.

Antonio Puricinedda Fava
Reggio Emilia, Italia, gennaio-febbraio 2014

Note :
1. Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, 1589.
2. È uno delle centinaia di nomi conosciuti per il II°zanni dell’Improvvisa. Non è un personaggio a sé stante, ma la variante con quel certo nome del tipo presente in tutte le commedie con svariatissimi nomi. E ciò vale per tutti i pochi tipi fissi della Commedia: il Vecchio è scisso in due caratteri: Il Magnifico ed il Dottore; il Servo in due: Primo e Secondo oppure Furbo e Sciocco; l’Innamorato, necessariamente in coppia o più coppie in molte commedie; il Capitano. Non c’è altro. Altri personaggi sono “di passaggio”, utili a quella certa azione in quella certa commedia, quindi non sono annoverabili nel ristretto e privilegiato gruppo dei ‘fissi’ o irrinunciabili. Tuttavia, per pochi che siano i tipi, innumerevoli sono i nomi. Perché? Per l’ovvio motivo che a fronte di un attore che porta avanti il personaggio acquisito in un famiglia d’Arte o da un Maestro di gran fama, c’è la maggioranza di attori che inventano il proprio nome ed il proprio maschema per stare, sì, in tradizione ma con un segno o più segni distintivi propri. Arlecchino è dunque soltanto uno dei tantissimi nomi del servo sciocco. Consideriamo inoltre che diversi altri secondi zanni con altri nomi hanno lo stesso identico aspetto, col costume a toppe – poi losanghe –colorate, stesso berrettino, stessa facciotta scura e, in genere, camusa. Il “mito” è nato a tavolino, o piuttosto alla scrivania: negli anni Cinquanta hanno fatto la loro apparizione le prime teorizzazioni sulla maschera-diavolo. E da allora tutti ne parlano di questa creatura come se fosse vera ma nessuno la mette in scena, perché è semplicemente aliena, aliena al genere e alle singole commedie, è inutilizzabile. L’effetto, l’unico, concreto e deprecabile che è stato prodotto è semmai il ‘protagonismo’ di quella variante, letteralmente infestante: la Commedia, signore e signori, non ha UN protagonista, per il semplice motivo che tutti i personaggi sono protagonisti. Le compagnie dell’Arte hanno creato un sistema di accordo fra specialisti, fra maestri, fra uguali, con due soli obblighi per tutti: essere bravi e fare contento il pubblico.
3. Gnoccaggine, facilità, agevolezza. Gnocco 1: Pane insaporito con ciccioli tipico del reggiano. Gnocco 2: di facile esecuzione, agevole, di facile comprensione, elementare. Gnocca 1: di persona semplice, sciocca. Naif. Gnocca 2: donna bella e desiderabile.
4. Alcuni che ci sono riusciti: Massimo Troiano, Discorsi delli triomfi, apparati e delle cose più notabili, fatte nelle sontuose nozze dell’Illustrissimo et Eccellentissimo signor duca Guglielmo, primo genito del generosissimo Alberto Quinto, conte palatino del Reno e duca della Baviera alta e bassa, nell’anno 1568, a’ 22 di febraro, di Massimo Troiano da Napoli, Musico dell’Illustrissimo et Ecc. signor duca di Baviera. In Monaco, appresso Adamo Montano, MDLXVIII. Flaminio Scala, Prologo della comedia del Finto Marito, in Venetia, appresso Andrea Baba, 1618 (1619); Il Teatro delle Favole Rappresentative, overo La Ricreatione Comica, Boscareccia, e Tragica: divisa in cinquanta giornate. In Venetia, appresso Gio:Battista Pulciani. MCDXI. Pier Maria Cecchini, nobile ferrarese, fra’ comici detto Frittellino, Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita, Padova, 1628. Nicolò Barbieri, La Supplica Discorso Famigliare di Nicolò Barbieri detto Beltrame diretta a quelli che scrivendo ò parlando trattano de Comici trascurando i meriti delle azzioni virtuose. Lettura per quei galantuomini che non sono in tutto critici, ne affatto balordi. In Venezia con licenza de’ Superiori e Privilegio per Marco Ginammi Lanno MDCXXXIV. Luigi Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien, A Paris, De l’Imprimerie de PIERRE DELORMEL, 1728. Antonio Piazza, Il Teatro ovvero fatti di una Veneziana che lo fanno conoscere, in Venezia 1777. Le mime Séverin, L’Homme Blanc, souvenir d’un Pierrot, Plon, Paris, 1929. Dario Fo, Manuale minimo dell’attore, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1987. Antonio Fava, La Maschera Comica … cit. Maschera & Maschere, catalogo della mostra Les masque Comiques d’Antonio Fava, par THEATRUM COMICUM, Ginevra, 2010. Vita Morte e Resurrezione di Pulcinella, ArscomicA, Reggio Emilia, 2014. Molti altri, con nomi anche più importanti, ma pur sempre una piccola pattuglia nella moltitudine di attori.
5. Adoro il verbo ’fare’.

Il Rinascimento Lungo

E’ la mia materia di lavoro e d’impegno costante, sia professionale sia mentale.
Per Rinascimento Lungo dobbiamo intendere un periodo storico che va dal XIII secolo fino a tutto il XVIII. Il cuore del periodo, i secoli XV e XVI, costituisce il Rinascimento comunemente inteso ed è in quel periodo che si colloca la nascita di tutta la ‘modernità’: come pensiero, come metodo di ricerca, come visione del mondo.
Con gli umanisti, gli eruditi di quel periodo nasce, alla fine del secolo XV, il teatro modernamente inteso, la Commedia Umanistica. Presto, negli anni Trenta del Cinquecento, nasce il Professionismo: la Commedia dell’Arte.
Bene: qui, è il luogo dell’approccio a questo mondo, a questa cultura, attraverso le discipline teatrali, nate allora, e proposte, studiate, inegnate e prodotte oggi; con lo sguardo proprio di un Rinascimento Lunghissimo.
È mia opinione che il Rinascimento sia tuttora in marcia.
La cultura teatrale odierna tente al frazionamento, alla separazione in ‘generi’ distinti di ciò che, nei grandi secoli del Rinascimento, era assemblaggio di componenti irrinunciabili e obbligatoriamente associabili: il tocco di ‘assurdo’ non era dissociabile dal realismo più crudo; è mio progetto riassociare, col gusto e la sapienza che ereditiamo da quell’epoca straordinaria, ciò che è stato ridotto a schegge concettuali.
La Commedia dell’Arte, come quella Umanistica e via via la Barocca e quella del periodo Illuminista, è teatro. Puro, purissimo teatro. È il regno dell’attore, al servizio del suo unico padrone: il pubblico.

Antonio Fava - Biografia

ANTONIO FAVA è attore, autore, regista teatrale, musicista, scultore, maestro di Commedia dell’Arte e di discipline comiche.
Dirige la Scuola Internazionale dell’Attore Comico – SIAC a Reggio Emilia, in Italia.
Progetta e realizza le maschere in uso presso la sua Scuola e nei suoi spettacoli. Insegna Commedia dell’Arte in istituti, università e accademie d’arte drammatica in tutto il mondo.
Espone le sue maschere in importanti musei e istituzioni culturali. È regista internazionale.
È autore del libro La Maschera Comica nella Commedia dell’Arte, pubblicato da Andromeda, Italia, e dalla Northwestern University Press.

“When I asked Antonio if there was anything he would especially like me to include in this short monograph, he replied: “You once referred to me as a ‘Renaissance Man’. Put that in and you can say whatever else you like” (Ibid.). teacher, writer, actor, musician, director, composer, mask-maker – in the end what more is there to say? Perhaps only that that these sometimes frenetic activities are all bound together by his “mission to keep the tradition of Commedia dell’Arte alive by researching and transmitting its artistic and cultural heritage” (ibid). – his words, not mine.”

John Rudlin

The Routledge Companion to Commedia dell’Arte
AAVV
Routledge, London, 2015

Le maschere – Per il Catalogo Maschere clicca qui

I SERVI

ZANNI LUPO

Zanni, Zani, Zane, Zan, Zuane, Zuan, Zagno, Zane, Zanin, Zuanin…Giovanni, Gianni, Juan, Joan, Joao, John, Jean, Hans… e poi Zagna, Zana, Zuana, Zuanina… il nome di tutto il popolo in un nome solo.
Altre interpretazioni del significato del nome sono forzose o fantasiose, per esempio quella che fa derivare Zanni da sannio, che è uno dei sinonimi latini di histrio, istrione, buffone, comico.
Nelle dizioni a sud dell’ Appennino tosco-emiliano il nome è chiaramente espresso: Gianni e Gian, che sono diminutivi di Giovanni. La “Z” alpino-padana dialettizza il nome ma non ne cambia la radice ed il significato.
Il nome Zanni è nome proprio di un servo della Commedia dell’Arte, storicamente il primo personaggio dell’Improvvisa, quando essa si rappresentava con piccoli gruppi di personaggi simili d’aspetto, maschera, comportamento ed anche nome, dove “Zan” è una sorta di prefisso uguale per tutti, seguito dal nome caratterizzante l’individuo: Zan Salciccia, Zan Frittello, Zan Tabacco, e via cosí. Ogni attore inventava il suo. Con questi personaggi, i primi attori dell’Arte rappresentavano brevi e cruente vicende di fame, furti, risse, in forma sfacciatamente spettacolare, chiamate ‘zannate’. Le zannate, o commedie zannesche, attuate da attori ‘zannanti’, è la forma originaria della Commedia

dell’Arte, caratterizzata da questi personaggi che esasperavano formalmente i tipi sociali ben noti al pubblico, i montanari inurbati ed in perenne ricerca di un lavoro, di una casa, di cibo. Con l’evoluzione della Zannesca, dovuta soprattutto all’introduzione dell’attrice, della donna in scena, la drammaturgia elementare di riferimento si complica, si fa commedia in senso classico e i vari Zan diventano servi fissi dei diversi padroni.
Per estensione, usato come sostantivo, ‘zanni’ significa genericamente servo, il personaggio del servo nella Commedia dell’Arte, qualsiasi servo. Il nome proprio Zanni si usa dunque in scena, nella commedia, dove non ve n’è mai piú di uno, essendo assente dalla Commedia l’uso dell’omonimia fra piú personaggi nella stessa fabula. Il sostantivo ‘zanni’ è termine tecnico e non si usa in scena, nella rappresentazione. Un padrone, per esempio Pantalone, non chiama “il suo zanni”, ma chiama “il suo servo”; se il suo servo ha per nome Zanni, allora Pantalone chiama Zanni. Un attore può interpretare “uno zanni”, questo ‘zanni’ può chiamarsi Zanni oppure in altro modo. In scena potremmo avere dunque “molti zanni” i quali possono chiamarsi Zanni, Brighella, Franceschina, Truffaldino, oppure Zan Trivella, Zan Farina, Zagna, Zan Tager, interpretati da altrettanti artisti specialisti, ciascuno, del proprio ‘zanni’.

PULCINELLA

II° zanni. Grande maschera della Commedia dell’Arte, Pulcinella – pulcino, pollastrello – costituisce la piú importante versione meridionale dello Zanni. Pulcinella oltre ad essere, sin dal suo apparire nei primi anni del Seicento. Un grande protagonista della scena comica, è anche il piú importante punto di riferimento per osservare e capire il processo di sopravvivenza storica dell’Improvvisa.
Mentre la Commedia strutturata scompare, di botto, dopo o per colpa della Rivoluzione Francese, vittima dell’odio verso i re ed i loro protetti – quindi anche verso i comici ed il loro teatro delle maschere – a Napoli ed in varie altre parti dell’Italia meridionale, specialmente in Calabria, Pulcinella resiste; e resiste proprio perché si mette a litigare su temi politici: era possibile vedere a Napoli, sulla stessa piazza, il pulcinella filoborbonico arringare la folla in concorrenza artistico-politica con l’altro Pulcinella, quello filorepubblicano. Insomma,

se Pulcinella farà una brutta fine da una parte, trionferà dall’altra. Poi entra, unica maschera, nella commedia borghese dell’Ottocento e lí, al calduccio, continua ad esistere, maschera solitaria, privata dei grandi slanci del passato, ridotta – salvo grandi eccezioni, come Antonio Petito – a personaggetto battutaro. Ma la grande Maschera trova sfogo nella festa. In Calabria, la tradizione pulcinellesca è decisamente piú libera e articolata: ogni festa ha il suo Pulcinella, che agisce come solista attore – narratore – cantastorie – intrattenitore – funambolo –prestidigitatore – giocoliere, ma che è anche una sorta di regista della festa.
Oggi Pulcinella ha tanta, forse troppa storia per essere definito in un solo modo: è, pirandellianamente, uno nessuno e centomila. Ma chiunque sia, è il simbolo comico della piú urgente emergenza, della sopravvivenza pura e schietta. Per questo lui è tutti: da solo non ce la farebbe.

I VECCHI

MAGNIFICO

Magnifico, ossia magno, grande, generoso. A significare l’esatto contrario, poiché il Magnifico, in Commedia dell’Arte, è decisamente avaro. Ma a parte questo umanissimo difetto, il Magnifico rappresenta la massima autorità in famiglia; è colui che gestisce non soltanto l’economia, le finanze, ma anche il destino della casa e di chi ci vive; decide se pagare o no i servi (in genere propende per il no e non gli mancano mai le buone ragioni); decide se il figlio o la figlia (Innamorato o Innamorata) si sposerà, quando e con chi, dando sempre il via al grande dramma degli innamorati, che richiede poi quella soluzione che è materia dei tre atti della commedia, lungo i quali tradizionalmente si snoda.
‘Magnifico’ è dunque termine tecnico che indica quel carattere. Il nome proprio è determinato dal chi è linguistico-geografico: Pantalone se è veneziano, Stefanel Botarga se è milanese, Zanobio da Piombino se è toscano, il Biscegliese se è

pugliese; e potrebbe essere un qualche “Pep” i alguna cosa mes, se lo facciamo catalano, od un “Mc” and something more, se lo facciamo scozzese. E cosí via, senza che il carattere, il comportamento, la funzione, cambino. Il piú famoso ed il piú presente storicamente è il Magnifico veneziano, Pantalone. Il nome, molto probabilmente, è la contrazione di “pianta il leone”, ossia il simbolo della Serenissima, di Venezia, della Repubblica di San Marco.
I mercanti veneziani “piantavano il leone” nei mercati mediterranei ed orientali, conquistavano il mondo aprendo fondachi e dominando le economíe. Il nostro Pantalone, dunque, è un mercante veneziano, un perfetto esemplare del dinamismo astuto, accorto e popolare ma anche orgoglioso, raffinato ed opulento della potente e meravigliosa città-stato.

DOTTOR PLUS QUAM PERFECTUS

Classico dottore bolognofono con sovrapposizioni multilinguistiche. Gran tuttologo, “Grande vecchio”, padre di uno dei due innamorati, amico-nemico del Magnifico in eterno conflitto-complicità.
La maschera ha la struttura piú ridotta: la fronte ed il naso. La fronte è indispensabile come simbolo di genialità, il naso come centro comico della faccia.
Dottoresco in tutto, è in realtà una continuazione dell’antico ciarlatano che impone un sapere spettacolare ma a dir poco dubbio, forte dell’ignoranza altrui – degli altri personaggi – della quale è sempre certo, poiché di fatto sono tutti o piú ignoranti (servi e capitani) o terribilmente distratti da grandi gioie e grandi dolori per badare ai suoi strafalcioni (innamorati).

Il pubblico riconosce a colpo sicuro il ciarlatano sfacciato e presuntuoso. Ma in qualcosa è grande, grande davvero: in gastronomia. Lí eccelle. E si esalta, si commuove, “sbrodola” nel descrivere la ricetta per esempio della vera lasagna e si scandalizza, si indigna, si infuria nel riportare certe barbariche varianti o certi ignobili procedimenti.
Il Dottore è la proiezione delle aspirazioni quanto piú possibile materiali di tutto un popolo di affamati che vede in lui, nella sua panza smisurata, nella sua pronuncia grassa, nel suo linguaggio che reinventa esplosivamente tutti i linguaggi, nelle sue esteriorizzazioni intestinali, debordanti come la sua gestualità, la realizzazione dei piú golosi e proibiti desiderî interiori: sí, poiché nel mondo delle maschere comiche l’interiorità, l’universo interiore, è lo stomaco, sempre troppo vuoto, mai troppo pieno, da rimpinzare fino a morire.

I CAPITANI

CAPITANO SPAVENTA

Colui che mette paura, che spaventa il nemico. Per esteso, nella versione di Francesco Andreini, si chiama Capitano Spaventa da Valle Inferna.
Il Capitano, in Commedia, è il guerriero, il bravaccio, il mercenario, l’uomo d’arme.
Gran combattente e grande amatore, è un eroe su ambo i fronti. Solitario, per motivi sia comico-poetici che funzionali. Fa coppia comica col suo servo, quando ce l’ha. È straniero, viene da lontano, ha visto tutto il mondo, vi ha visto cose che nessun altro può aver visto e vi ha fatto cose che nessun altro può aver fatto. Parla la sua lingua di straniero sospettosamente mescolata con quella del luogo (ossia, del pubblico). Naturalmente è un fanfarone, è il fanfarone per eccellenza; millantatore di straordinarie avventure, prodezze e prestazioni eroiche ed erotiche.
In realtà è un semplice ed un codardo. Ma questa terribile realtà, della quale lui ha vago ed inquieto sentore, va assolutamente tenuta nascosta. Esaspera la sua immagine virile e vincente per trarne vantaggi e soddisfazioni, ma forse soprattutto per nascondere l’intima verità, che lo fa soffrire terribilmente. È molto attuale, “nostro”, il Capitano. Ai tempi della Commedia storica tutti i suoi problemi relazionali si riassumevano in una parole: onore. Oggi la questione può apparirci risolta da parecchio tempo, ma non è cosí. Alcuni passaggi ci portano alla ridefinizione nostra: dall’onore al decoro, da questo alla dignità ed infine l’ “immagine”; è evidente che l’immagine ci concerne ed è altresí evidente che l’immagine è l’aggiornamento dell’onore. Il Capitano ha sempre avuto un problema di immagine. C’è dentro fino al collo in quel terribile problema.
Tutto il suo essere si muove nella direzione di dare di sé quell’immagine gloriosa e grandiosa senza la quale è finito, fallito, inesistente, morto. Ogni tentativo di imporre la sua immagine di sé costituisce un passo verso il disastro. Al suo primo apparire in scena il Capitano impressiona realmente gli altri personaggi, ma, ahilui, non regge la lunga durata e scivola fatalmente e rovinosamente verso la piú fangosa vergogna, fino alle legnate ed alla fuga finali. L’interprete del Capitano fornisce immediatamente al pubblico tutti i segnali comici che significano il destino del personaggio.

Eppure, il Capitano gode di due straordinarie chances: è un grande affabulatore, le sue storie, benché pure millanterie, affascinano tutti, la sua visionarietà “utile” – utile alla sua sopravvivenza fisica e di immagine – è realmente grande, grandiosa.
Il Capitano non ha cultura, ma ha orecchio, cosí che una narrazione “da bar” si arricchisce di citazioni (dubbie) e di riferimenti culturali (incerti), preferibilmente di carattere mitologico. Il Capitano che ‘fa una bravura’ è un bellissimo esempio di teatro pensato per tutto il pubblico, tutti i livelli di comprensione e gradimento. Infatti la sua dimensione di eroe da taverna lo avvicina al pubblico equivalente, ma i contenuti di cultura sapientemente “orecchiata”, alzano via via il livello, fino ad imporsi ai palati piú fini. In questo senso, il Capitano è come dovrebbe essere – a nostro avviso – il teatro, tutto il teatro: chiaro, popolare (ossia, per tutti), divertente, raffinato; ed anche “problematico”, come lo è il Capitano.
Il Grande Affabulatore ha dunque questa dimensione dalla sua; ma anche un’altra: è un grande amatore. L’animale uomo di sesso maschile non falla. Delle sue doti amatorie ne gioisce – oltre a lui stesso – soprattutto la sua referente ed equivalente femminile, la Seconda Donna, o Signora, giovane, bella, spavalda, fanfarona come lui (ma non codarda, anzi, piuttosto aggressiva), moglie dell’irrimediabilmente, costituzionalmente cornuto Magnifico, oppure (che è lo stesso) Dottore. Va da sé che la Signora, sposando un vecchio, ha sposato il suo capitale, che ama tanto e del quale ostenta gli effetto, sviluppando lei il tema dello status con egual poetica e tematica del capitano in rapporto all’eroismo: entrambi hanno un problema di immagine.
Con la sua funzione di “intruso”, di “terzo incomodo”, il Capitano si porta addosso il marchio della colpevolezza ed il destino dello “smascheramento”. Si riavrà dallo svergognamento e dalla bastonatura finali quel tanto che basta per preparare un’uscita di scena durante la quale darà fondo alla sua mitomania che gli farà immaginare, terapeuticamente, un futuro di ben piú grandi glorie e trionfi.

MASCHERE SOCIALI

ANDROGYNE

Androgino è maschera sia maschile che femminile. Maschera sociale, accessorio personale da mettere e togliere, usata dai personaggi “belli”: Innamorato (I° amoroso), Innamorata (Iª amorosa), Signora (IIª amorosa), Capitano non mascherato (II° amoroso).

L’Androgino è maschera di dissimulazione e serve a nascondere il volto per non farsi riconoscere: si usa in situazioni imbarazzanti, in clandestinità, in azioni segrete, o semplicemente per non essere costretti al rapporto con altri.

I SATIRI

SATIRO GRAN CORNUTO

La Commedia dell’Arte non rappresentava solo commedie, solo teatro comico. Una parte del repertorio era di natura poetica: commedia pastorale, marinaresca, boschereccia. Facevano la loro apparizione personaggi mitologici, come satiri e ninfe, tritoni e sirene. Aggiustati ad uso e consumo di un rapporto attore-pubblico molto diretto, questi personaggi partecipavano agli intrighi amorosi e zanneschi della commedia propriamente detta.
Il Satiro “gran cornuto” è cosí chiamato per evidentissime ragioni.

Questa maschera contiene elementi classicheggianti ma anche medievaleggianti, essendo vista dal pubblico piú come diavolo che come satiro.
Nel nostro lavoro, in allestimenti come nella scuola di teatro comico, le maschere dei satiri vengono studiate come esseri significanti le forze della natura ed agenti sempre e comunque: anche lo stato di immobilità rimanda a certi immobilismi sia naturali che sociali, coi quali i personaggi si trovano a dover fare i conti.
Il nostro satiro non parla, ma emette suoni molto espressivi e significativi.

La commedia

LA COMMEDIA DELL’ARTE

Prima di chiamarsi Commedia dell’Arte, questo genere si è chiamato Comme Zannesca, Commedia Improvvisa, Commedia Mercenaria (mercenaria=retribuita=professionale), Commedia Italiana. Ve ne sono state diverse altre di denomnazioni ma tutte insieme tendono a sintetizzare i significati più importanti: Zannesca=popolare; Arte, Mercenaria=professionale; Improvvisa=determinata dagli attori; Italiana=provenienza, gusto, ritmo.
Il tutto produce un genere.
Questo genere non si discosta dalla sua natura, che quella teatrale: la Commedia dell’Arte è Teatro; nasce professionale quindi necessita di organizzazione e organizza tutto, sin dal suo apparire: la Compagnia, le signole Specializzazioni (i Tipi Fissi), la struttura drammaturgica, che

non muta per secoli, sino ad oggi; la Commedia dell’Arte organizza il luogo dello spettacolo, organizza il pubblico, organizza il sistema retributivo inventando il principio del ‘biglietto’, che in origine era l’affitto della sedia. La Commedia dell’Arte parla di gente vera in situazioni vere, con uno stile altamente spettacolare: è il Grande Spettacolo della verità collettiva, di tutti noi.
Per Commedia dell’Arte intendiamo, normalmente, il genere comico. Tuttavia, ‘Commedia dell’Arte’ è piuttosto l’espressione sintetizzante un sistema produttivo che raduna diversi generi: comico-poetici come la Pastorale, la Boschereccia, la Marinaresca, la Piscatoria; epici come l’Opera Eroica; tragici come l’Opera Regia.

SOPRAVVIVENZA

La Commedia dell’Arte ha inventato il professionismo teatrale moderno.
Era scomparso da tanto tempo, da quando l’Impero Romano, abbracciando il Cristianesimo, procedette ad una sorta di rivoluzione religioso-culturale che fece piazza pulita di tutto ciò che era spettacolo e del concetto stesso di spettacolo.
C’è un vuoto che, ridotto ai minimi termini, ossia prolungando al massimo l’agonia del teatro professionale romano e cercando l’origine della Commedia il più anticipatamente possibile, va dall’anno Domini 400 al 1530. Durante questi millecentotrenta anni, il teatro professionale è del tutto inesistente, se ne perdono la memoria, il concetto. Il teatro in sé, fa sporadiche apparizioni, per essere poi “reinventato” soprattutto a fini religiosi, come estensione della liturgia ufficiale. Non mancano le forme laiche, che sono sempre comiche; un genere su tutti, la farsa. La ‘Mercenaria’, o ‘Zannesca’, o ‘Improvvisa’, o ‘Italiana’ o dell’Arte – tutte definizioni precedute da ‘Commedia’, che sta per ‘Teatro’ in assoluto – è il punto di ri-partenza dell’attoralità professionale, permanente, che inventa l’attore ed inventa anche l’attrice, i quali spendono la loro vita nel divertire (sì: DIVERTIRE!) il Pubblico.

Il professionismo teatrale moderno è stato inventato senza che agli inventori passasse per la testa di essere “mantenuti”, oggi ‘sovvenzionati’, da qualechefosse istituzione. Si facevano semplicemente pagare. Vendevano un prodotto/servizio e se lo facevano pagare. Oggigiorno le cose sono terribilmente diverse, ma quel principio era e resta l’unico a garantire la continuità del progetto, la sua esistenza, la sua sopravvivenza.
I comici dell’Arte vendevano il piacere di godersi una storia ben congegnata, recitata da una compagnia di attori affiatati e ben preparati. Gli stessi riempivano gli intervalli di canti e danze e della vendita di prodotti d’ogni tipo, tanto per tirare su qualche altro soldo.
Con pochissime eccezioni, l’Arte non ha mai arricchito i suoi devotissimi promulgatori. Tuttavia, la poliedricità dell’attore dell’Arte, lo rendeva capace di produrre molto, di tutto, sempre, incessantemente ed instancabilmente: producevano Arte, Artigianato, Cultura. Così facendo si auto-finanziavano.
Producendo e vendendo prodotti sempre buoni, sempre belli, sempre di grande dignità, i comici dell’Arte hanno caratterizzato un’importante parte della vita sociale europea per almeno tre secoli.